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Germano
Paolini
ROMA
"Una
città come
una foresta"
"Ultime
luci
su Roma" cm.60
x 80
dal
25 novembre
al 15 dicembre
2000
Galleria
d'Arte
Moderna
"La
Vetrata"
Via
Gesù e
Maria,
23 - 00187
ROMA
tel.
e fax
06/36006854
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"Guardando
dal Gianicolo" cm.
100 x
100
|
Presentazione
in catalogo di
MARIO LUNETTA
Una
città come
una
foresta
La
città in
quanto
macchina
plurima è una
delle
più straordinarie
invenzioni necessitate della
bestia
uomo
fattasi
animale
sociale.
Composto
infinitamente
eteroclito
di natura
e artificio,
di fissità e
mutamento,
la città non è un
luogo
inerte,
ma un
aggregato
con una
sua vitalità cellulare;
e finisce
per abitare,
nella
mente
e nei
comportamenti
condizionati,
chi la
abita,
in un
reciproco
processo
contaminatorio
e simbiotico.
Vi sono città e
città,
nel vasto mondo:
città clamorose
e città del
silenzio, come
voleva D'Annunzio;
città vistose
e città invisibili,
come ha detto
Calvino; vi
sono città appartate
e città ombelicali,
la cui remota
centralità storica
si è trasformata
in enigma che
non cessa di
produrre fascinazione.
Una di queste è Roma.
Ammaliato anche
da tutte le
forme di conoscenza
per errore,
Walter Benjamin
ha scritto
che per conoscerla
ci si può addentrare
in una città come
in una foresta.
La città eterna
si può scoprire
anche così,
con pigrizia
attenta, attraverso
una flânerie paziente
e avventurosa,
se si è disposti
a lasciarsene
investire ed
avvolgere,
in un séguito
di sorprese
che possono
anche risultare
vertiginose.
Roma è stata,
ed è,
malgrado tutte
le attuali
spiacevolezze
che fanno la
fatica di viverci,
una delle città più amate
del mondo,
forse dell'universo.
Eppure, certi
spiriti magni
della modernità,
da Leopardi
a Hawthorne,
da Zola a Joyce
a Scott Fitzgerald,
non sono riusciti,
per ragioni
diverse, a
lasciarsene
incantare.
Al contrario,
un flâneur curioso
come Stendhal,
perdutamente
innamorato
di Milano che
vide sempre
come l'incarnazione
luminosa della
sua giovinezza
italiana, provò per
la città eterna
un sentimento
contraddittorio:
attrazione
per le sue
rovine superbe,
e avversione
per il governo
dei preti che
soffoca l'innata
energia del
popolo. Così,
come dichiara
nel 1811 alla
sorella Pauline,
si commuove
fino alle lacrime
per il canto
degli uccelli
fra i ruderi
del Colosseo,
ed è al
contempo disgustato
dalla meschinità del "génie
du christianisme" che
immiserisce
le potenzialità della
città.
Il suo omaggio
a Roma, comunque,
l'autore di Le
Rouge et le
Noir lo
tributa con
quei libri
un po' fantasiosi
ma intelligentissimi
che sono Rome,
Naples et Florence e Promenades
dans Rome.
Byron, che
fa della città una
tappa fondamentale
del suo Grand
Tour, la
chiama, in
una lettera
dei 1817 all'amico
John Murray, "Roma,
la Meravigliosa",
e continua
a tesserne
le lodi in
una serie di
altre testimonianze.
Per gli artisti,
poi, Roma ha
sempre rappresentato
un topos pressoche
inevitabile,
tanto che oggi,
ormai dentro
ciò che
chiamiamo postmodernità,
un "soggetto" come
Roma può apparire
assolutamente
impraticabile,
scaduto, ai
limiti della
banalità più trita.
Un rischio
inutile, quindi?
E se fosse,
come nel caso
di questa bellissima suite romana
di Paolini,
piuttosto una
scommessa temeraria
brillantemente
vinta?
Un
pittore
come
Germano
Paolini
tratta
la "sua" Roma
come
un
paesaggio:
con
la
stessa
aspra
e insieme
penetrante
capacità di
sguardo
che
gli è propria
quando
si
impegna
nella
ricostruzione
visiva di
quella Maremma
che è davvero sua in
tutti i sensi,
guardandosi
bene dall'affondarci
dentro per
eccesso di
dolcezze
di "vissuto",
e mantenendo
piuttosto
una sorta
di distanza
di rispetto,
capace di
tenere saldamente
a governo
l'empito
emotivo.
L'artista
ha amato
misurarsi
in anni recenti
col clima
e con le
geometrie
di certe
città intensamente
caratterizzate,
di area centroeuropea
in particolare
(Dresda,
Praga): e
lo ha fatto
non con l'occhio
assopito
del vedutista,
ma con l'intelligenza
al tempo
stesso spigolosa
e duttile
di chi vuole,
prima di
registrare, capire.
Un soggetto
desoggettivato
e non misurabile
come Roma,
che è certo
la città più stratificata
della terra,
e non si
dà mai
allo sguardo
e all'abbraccio
una volta
per sempre,
capace com'è di
riservare
anche a chi
vi è nato
e ancor l'abita
sorprese
stupende
e malvage,
non poteva
non intrigare
un pittore
colto come
Paolini,
proprio per
la sfida
impossibile
che rappresenta
in quanto
icona consumata
fino alla
polverizzazione
del Kitsch.
Dipingere
Roma senza
attivare
i necessari
anticorpi
significa
oggi rischiare
la parodia
involontaria,
il déjà vu del déjà vu del déjà vu.
Il Novecento
italiano è carico
di immagini
di Roma,
non di rado
straordinarie.
Non pochi
valorosi
artisti viventi
hanno dipinto
i suoi volti
infinitamente
mutevoli
pur dentro
una fissità a
suo modo
spaventosa
per le pareti
di tempo
senza numero
che la attraversano,
i fondali
di nulla
che ne segnano
la facies al
tempo stesso
accogliente
enigmatica.
Ma Paolini
non è romano,
né vive
a Roma: ed è già qui
un duplice
elemento
di differenza
rispetto
a tanti suoi
colleghi,
che respirano,
senza esservi
nati, l'aria
della città eterna.
Paolini è un
bresciano
toscanizzato
che vive
a Grosseto,
e ciò gli
permette
di vedere
la capitale
con l'atteggiamento
dialettico
di chi l'ama
da lontano
mantenendo
uno strano
senso di
sospetto.
La Roma paoliniana
non è,
così,
la tenera,
calda, stupefacente
metropoli
che affascina
i turisti,
ma una città dagli
spazi anche
seccamente
scanditi,
dagli scenari
anche duramente
profilati.
La sua luce
non è tiepida
e trasparente,
non ha una
pastosità già meridionale: è una
luce in certi
momenti quasi
nordica,
che può fissarsi
su dei bianchi
accecanti,
come càpita
in quei pezzi
perentori
che sono S.
Bibiana,
Vestigia
romane, Scalinata
di S. Isidoro,
SS. Domenico
e Sisto in
via Panisperna, Notturno;
oppure rapprendersi
come un magma
testardamente
modellato
da un'energia
cromatico-strutturale
ragguardevole
(Tetti
di Roma,
Campo de'
Fiori, Verso
le colline,
Via del Progresso,Mercati
Traianei, Antichi
resti a Via
S. Teodoro,
Guardando
dal Gianicolo).
Si tratta
di una Roma
assolutamente
straniata,
del tutto
anti-turistica:
strategia
nella quale
non è certo
assente la
lezione inesauribile
di Cézanne,
di cui già il
pittore si
era lucidamente
avvalso in
precedenti
esperienze
paesaggistiche.
Qui il paesaggio
non è minerale
e vegetale, è di
pietra e
cemento.
Non è di
natura, è di
storia e
di artificio.
Ciò dà all'artista
il destro
di comporlo/ricomporlo,
di strutturarlo/destrutturarlo
con estrema
fermezza:
rispettandone
i codici,
ma al tempo
stesso spostando
costantemente
il gioco
degli spazi
e delle masse,
secondo un'ottica
che cancella
le sue matrici
naturalistiche
per assumere
tratti visionari,
in certi
casi di una
bellezza
metallica,
in cui il
punto di
vista sguincio
ci squaderna
tessere inedite
di un mosaico
celeberrimo
eppure sconosciuto S.
Maria in
Trastevere, Da
Ponte Mazzini,
Chiesa del
SS. Nome
di Maria,
Templi romani,
Ponte Fabricio,
Accademia
di Spagna). Ed è qui
che il fondo
espressionistico
di Paolini,
mai esibito,
ma che resta
indubitabilmente
una componente
non secondaria
del suo DNA,
affiora per
scansioni
nette, tagli
scenografici
crudeli,
alternanze
violente
di ombre
e di luci:
un teatro
senza sbavature,
ora brutalmente
zoomato ora
misteriosamente
profondo,
su cui, è il
caso di dire, si
stacca un
cielo assai
poco romano,
quasi sempre
privo di
tenerezza,
di un cobalto
forte, che
serve soprattutto
- come in
funzione
di fondale
- a ritagliare
gli elementi
portanti
del quadro,
la loro presenza
sostanziosa
o spettrale,
ma sempre
di una sconcertante
forza espressiva.
Un
omaggio
singolare
alla
città eterna,
questo
di
Paolini;
una
riscoperta
che
ha
saputo
giocare
la
partita
dell'ovvio
con
carte
di
inedita
freschezza
e
energia.
Il
pittore
toscano
continua
il
suo
percorso
in
crescita
sul
filo
della
consapevolezza,
con
una
sprezzatura
che
a
me
sembra
perennemente
scontenta
di
sé,
impegnata
nel
fermare
in
grazia
di
uno
stile
aspro
e
intransigente
la
furia
dei
propri
fantasmi.
Credo
che,
dopo
questo
suo
forte
exploit "romano",
non
soltanto
i
romani
che,
come
chi
scrive,
amano
e
detestano
questa
città incredibile,
ma
la
figurazione
italiana
dei
nostri
anni
nel
suo
insieme,
gli
debbano
una
buona
dose
di
riconoscenza.
Mario
Lunetta
Accademia
Platonica,
ottobre
2000
|
Testo
di NICOLETTA
CARDANO
Roma
in scena
Troppo
piena
di tutto,
soffocante
per il
miscuglio
caotico,
e tutt'altro
che in
via di
scioglimento
dei diversi
elementi
del composto,
la Roma
di oggi
si dipana
davanti
agli
occhi
di chi
la vive
e di
chi la
visita,
di chi
la ama,
con una
serie
di scenari
vuoti
o da
poco
svuotati.
Molto, tutto
sembra essere
consumato,
nulla è più originale,
stimolante
se non l'emozione,
che ti assale
comunque,
dovunque
negli scorci
soliti, amati
malgrado
la consapevolezza,
dolorosa,
di trovarsi
all'interno
di uno spazio
ricostruibile
a casa, lontano
da qui, con
carta, forbici
e colla.
Uno scenarietto
di carta,
uguale, al
di là della
rappresentazione,
a quello
che i turisti
comprano
e consumano
(ma utilizzano?)
ovunque,
a Roma come
a Firenze,
come a Berlino,
come in una
delle qualsiasi
tappe raggiungibili
con i tour
globali.
Un inquietante
gioco quello
della Città Eterna
di apparire
e dissimulare,
di svelarsi
e provocare
palpiti e
passioni
per la sua,
sola, appariscente
teatralità.
Una situazione
di bilico
per te che
la vivi e
la guardi,
scanzonato
da un secolo
e oltre di
lettura e
rielaborazione
nell'immaginario,
perplesso
e stupito
di provare
forse emozione,
di percepire
ancora "bellezza" nel
poliedrico
e affastellato
scenario
metropolitano.
Paolini
con occhio
freddo
accarezza
i diversi
teatrini
che gli
si parano
davanti
nell'esercizio
dell'esplorazione
e della
conoscenza;
percorre
luoghi
soliti,
ma ricerca
anche scorci
meno usuali,
dove è più dirompente
la disomogeneità dell'assemblamento
(S.Bibiana e
via Giolitti)
Tratta i teatrini
come i paesaggi
naturali che
gli sono familiari
(la spiaggia
delle Marze,
la campagna
e le colline
intorno a Grosseto),
non si cura
del vuoto,
va oltre e
tira fuori
solide geometrie,
contrasti netti
di luci e ombre,
costruisce
il suo paesaggio
urbano, definisce
la sua dimensione
mentale ed
artistica,
all'interno
della scena.
Lo fa discretamente,
con quel fare
sommesso che
caratterizza
la sua pittura,
ma anche con
quella consapevolezza
scanzonata
di chi non
ha paura di
verificare
il vuoto della
scena.
Nicoletta
Cardano
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Una città come una foresta |